Sala delle Virtù

Salone dei Mesi


Domenico di Paris
(doc. 1456-1503)
Bongiovanni di Geminiano Gabrieli
(doc. 1446-1476)
La Sala delle Virtù



Superato il Salone dei Mesi si accede ad un altro luogo fondamentale di Palazzo Schifanoia: la preziosa Sala degli Stucchi detta anche delle Virtù. Nel contesto della Delizia e degli appartamenti privati, la sala possedeva un’importanza strategica essendo utilizzato da Borso come luogo di udienza e, al contempo, come anticamera degli spazi privati. Tale funzione deve aver consigliato la realizzazione di una decorazione sontuosa e di grande impatto, impostata su un soffitto a lacunari decorato da stucchi dorati contrassegnati dalla presenza delle imprese del duca.

Le pareti sono arricchite da un alto fregio, anch’esso in stucco dorato e policromo, che presenta diversi riquadri decorati da festoni, ghirlande e putti, con al centro lo scudo araldico estense (i gigli di Francia e l’aquila imperiale) e le imprese del duca come l’Unicorno, che allude alla purezza, il Paraduro, che ricorda le bonifiche delle campagna compiute da Borso, il Battesimo, simbolo di prudenza, il Fuoco, emblema della carità e dell’amore.

Fra questi riquadri sono collocate le Virtù rappresentate da eleganti figure femminili ad alto rilievo sedute su troni. Tra le virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) – e quelle cardinali (Prudenza, Fortezza e Temperanza), svetta l’assenza tra quest’ultime della Giustizia. Tale mancanza ha fatto ipotizzare che la Giustizia venisse evocata dalla figura di Borso in persona, non a caso effigiato nell’atto di amministrarla nel mese di Marzo dell’adiacente Salone dei Mesi. Appare più verosimile però pensare che tale Virtù, centrale in un programma iconografico “di governo” come questo, fosse posta in una posizione preminente, ad esempio al di sopra del camino, andato distrutto a seguito degli usi impropri cui è stato sottoposto il Palazzo.

Per la realizzazione di un apparato di simili proporzioni la scelta cadde nel 1467 su uno dei protagonisti della scultura estense di quegli anni: il padovano Domenico di Paris, interprete di una cultura figurativa assai simile a quella di Francesco del Cossa, coadiuvato dal pittore Bongiovanni di Geminiano Gabrieli. I due firmarono un contratto che, a riprova dell’importanza della commissione, prevedeva l’impiego di colori fra i più preziosi disponibili sul mercato.